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mercoledì 1 settembre 2010

Mi rivolto, dunque non capisco.

Non ho alcun dubbio sul definire la parola come il più crudele dei traumi. Solo che ho bisogno di tempo per fare in modo che voi sappiate cosa intendo esprimere. Quindi in questa sede ho deciso d'introdurre una breve digressione sulla definizione del concetto di parola.

Bene: la parole esprime la volontà individuale di creare un linguaggio proprio, attingendo da un patrimonio linguistico comune che è la lingua. E non dico nulla di nuovo, visto che sto facendo la sintesi di una distinzione molto nota ai linguisti, ovvero quella tra langue e parole adoperata da Ferdinand De Saussure nelle sue lezioni tenute tra il 1906 e il 1911 e raccolte dagli allievi del Maestro nel Corso di linguistica generale, edito da Laterza per l'Italia.

Si rivela perciò interessante capire come qualche individuo possa avere la presunzione di attingere ad un patrimonio linguistico che non ha nulla di codificato per creare un'altra parola. Eppure De Saussure insegna che la lingua è un concetto che esiste anche senza di noi. Bisogna solo creare delle associazioni letterali per darle concretezza. Le metafore, invece, sono un codice che non dovrebbe avere nulla a che vedere con l'uso letterale della lingua, altrimenti, molto semplicemente, si rischia di non capirsi più. Eppure in Sicilia esiste un'altra parola di uso giornaliero che probabilmente ha molto più in comune con il trobar clus medievale e cioè con quell'uso del linguaggio tipico di certa poesia trobadorica che si avvale dell'uso di simboli criptici.

Dunque la mafia, pensata come poesia di antiche origini, non avrebbe bisogno di essere spiegata perché il suo codice linguistico impone di recepire il mistero, piuttosto che il messaggio alla lettera.

Poniamo però che al mondo esista gente limitata come me, persone alle quali bisogna parlare con una certa semplicità, perché non dispongono di mezzi sofisticati per comprendere un certo uso del linguaggio, uomini e donne che si sono fidati solo di De Saussure e di Leopardi, al massimo, perché il trobar clus alle superiori non si approfondisce mai: ecco, in questo caso vorreste dirmi che dovrei chiedere a mia madre d'insegnarmi nuovamente a parlare? Ennò, perché io mi secco! Chi mi conosce bene, infatti, sa che sono una pigra naturale o peggio, una che fa solo ciò che vuole, quindi vi annuncio che non imparerò a usare un'altra parola, solo perché a casa mia con certa gente si può parlare solo in un modo.

Ancora a sostegno della mia tesi vorrei proporvi un frammento di Eraclito, che Thomas Stearns Eliot si preoccupa d'inserire ancor prima di dare inizio alla danza delle parole contenute nei suoi straordinari Four Quartets:

Ma benché il logos sia comune, i

più vivono come se avessero una

sapienza loro propria

Dopo ciò, ritengo che non ci sia più alcun dubbio nel ritenere che sia possibile contrapporre la forza di una domanda onesta alle riposte scontate di coloro che si servono di una parola non scritta e dunque non registrata sul vocabolario della lingua italiana.

Perché si rimane senza parole (fondate) quando Hussein, un ragazzo sui trenta, proveniente dal Bangladesh, con regolare licenza di vendita della merce in pubblica piazza, viene aggredito da un catanese di colore avana che gli recrimina azioni che Hussein non riconosce di aver compiuto (a sostegno del ragazzo, infatti, ci sono tutti i venditori ambulanti del luogo che lavorano ogni giorno insieme a lui, ai quali seguono assidui frequentatori del luogo) e conclude il suo attacco minacciandolo letteralmente (quì si che ritorna De Saussure!) di morte, mentre lo afferra per il collo e lo sbatte contro un palo della luce, per poi andarsene furiosamente.

Ma lo show non finisce qui, perché il signore color avana ritorna dopo circa un quarto d'ora nel luogo imputato iniziando il seguente monologo, che per forza di cose quì deve seguire un canovaccio, in quanto non avevo un registratore dietro:

"Allura, a mmia mi dissiru ca tu a mmè figghiu ci riscisti ca ci tagghiavi u coddu e ca poi niscisti u cuteddu. E tu a me mi devi capire perché qui siamo in Sicilia e quannui in Sicilia si parra di cuteddi, allura iù capisciu che devo ragionare in un altro modo, infatti ho pensato - Cu è stu mafiusu, ddocu, ca uora ci parru iù? No, perché io potevo andarmene dai carabinieri a denunciarti per quello che hai fatto (solo che Hussein non aveva fatto niente, ndr.) e invece vinni ri tia, che appartieni ad un'altra cultura e scetti cosi non le puoi capire. Ora a mmia mi dissiru che tu sei una brawa pessona, quindi uora a ttia non ti tocca cchiù nuddu (perché? Esistono alternative? Ndr.). E uora me ne vado".

Io, dal basso dei miei limiti, capisco solo che Hussein è stato minacciato da una persona che ostentava atteggiamenti razzistici, oltreché pesantemente mafiosi. Ma il inguaggio mafioso non può essere definito, non ha un vocabolario. Al massimo è un codice, ben custodito nel rifugio ameno di quel gentiluomo di Bernardo Provenzano fino a poco tempo fa. Quindi che autorità ho io per stabilire che ieri i carabinieri avrebbero fatto bene a farsi vedere, dopo la mia chiamata al 112? Chi sono io, per stabilire che sempre ieri sera e non solo ieri sera qualcuno avrebbe dovuto sorvegliare la villetta sotto Piazza Umberto, a Zafferana Etnea?

Vi rispondo subito: una persona che si sofferma allo svolgimento letterale (ma forse per molti non reale) dei fatti. Mentre il comandante dei carabinieri è un tipo che scrocca al gioielliere gli orecchini con il rubino da regalare alla moglie, perché magari quel gioielliere è senza licenza, per cui siamo di fronte ad un do ut des e io non ho nient'altro da aggiungere.

Bye.


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Laureata in Lettere presso l' Università di Catania e diplomata alla Scuola d'Arte drammatica " U. Spadaro" del Teatro Stabile di Catania.